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Il corno mancante / The Missing Horn 

Permanent collection of MUDEC in Milan. The work was commissioned by the Italian Council in collaboration with Schloss Solitude, Stuttgart.

Rubble, video, artist book, vegetal elements.

Palermo, Berlin, Warszawa, Milano, München, Stuttgart… the European cities are destroyed, but the war is finally over. A new era of opulence begins. Millions of cubic meter of bombed houses are quickly dumped into the sea, or piled up in artificial hills. The urban fabric, freed from the ruins, starts beating again.

75 years later, those war-dumps are covered with meadows, bushes, anemone forests, inhabited by fish or insects, shellfish, rodents, invertebrates, visited by dogs and humans. The underground roots of the trees embrace the crumbled houses, slowly digesting them, while underwater streams erode the ruins of the baroque palaces of Palermo. What once were sterile dumps are now hybrid ecosystems, where the natural and the artificial interweaves: here the raw heritage of war is subjected to various, living forces: a path opened up towards the past, were its remains trans-mutate toward the future.

These sites, scattered across the continent, are at the same time public spaces and complex digestive systems, engaged in assimilating destroyed cities, on a quasi-geological time scale.

One of these hills, in Milan, is inhabited by Yamantaka, a Buddhist Deity also known as the “conqueror of death”. During the bombing of August 13, 1943, the ethnographic civic museum was hit and destroyed

by a phosphorus bomb and the statue of Yamantaka was wrapped in fire: while the entire African collection burned and vanished, the sculpture survived, but one of the two horns is still missing together with other components, crucial in iconographic and religious terms: with statistic plausibility and poetic evidence

they lie buried in the war dumps of Milan, together with the remains of many other objects looted across the globe.

The videos were shot on the artificial hills of Milano, Berlin and Stuttgart and on the waterfront/seabed of Palermo. Previous and further research took place in München, Warszawa, Nürnberg and Pforzheim.

Nell’estate del 1943 una bomba al fosforo colpì la sede delle collezioni etnografiche milanesi, ospitata in un’ala di Castello Sforzesco. Molti reperti furono distrutti dal fuoco, altri invece non furono mai ritrovati, persi tra le macerie generate dai crolli che seguirono l’incendio. Questi oggetti, sottratti alle culture colonizzate per essere custoditi all’interno del dispositivo museale universa­lista, furono distrutti e dispersi durante un litigio tra potenze europee. Una promessa tradita. A differenza di molti altri manufatti, la scultura del “Distruttore della Morte” Yamantaka (Cina, Dinastia Qing), fu recuperata tra le macerie del museo. Ma il suo corno sinistro non fu mai ritrovato, insieme ad altre componenti cruciali da un punto di vista religioso - tra queste la testa serena del Buddha posta al di sopra di quella irata di Yama, e gli implementi tenuti nelle mani della divinità.

Dopo la guerra, i detriti dei bombardamenti furono rimossi, e accumulati per mesi in una zona paludosa fuori città, fino a formare una collina artificiale: Monte Stella. Con certezza poetica e alta probabilità fattuale, gli oggetti perduti in quel rogo giacciono oggi insieme alle componenti mai ritrovate di Yamantaka, nelle profondità del monte-manufatto.

Questi frammenti, e la loro impossibile ricerca, sono quindi l’occa­sione per immaginare una ricomposizione, se non altro rituale. Del resto il significato della scultura trascende la sua forma materiale e contingente, come ho intuito mentre ero ospite del centro buddista Kunpen Lama Gangchen, durante una giornata di studio dedicata proprio a Yamantaka. In quei giorni ho capito che questa divinità, che ritenevo l’espressione di un culto estinto, era in realtà una forza viva, quotidianamente attiva nella vita delle persone che ho incontrato. Un praticante, vedendo l’imma­gine fotografica di Yamantaka subito dopo il suo recupero tra le macerie, mi ha detto commosso: guarda com’è vivo.

La mia stessa presenza è stata interpretata come l’occasione creata dalla divinità, prigioniera in una teca di vetro infrangibile, per manifestarsi al suo popolo: saranno infatti i monaci e i praticanti ad accedere agli spazi del museo, andando incontro alla scultura, per ri-consacrarla, reintegrandone il pieno significato religioso, già compromesso, secondo Lama Michel, prima del bombardamento, come si può dedurre leggendo la relazione fatta dai funzionari pubblici al momento del suo acquisto da un mercante bolognese di manufatti orientali, negli anni 30.

“Il canto di Yamantaka” si articolerà dunque in due momenti: dopo l’azione rituale all’interno del Mudec i monaci si sposteranno sul Monte Stella, per una Puja prima del tramonto, proprio nel luogo costruito dai milanesi per trascendere il trauma della distruzione, “come auspicio per un superamento dei conflitti che attanagliano il mondo attuale […] nei vicinissimi paesi in guerra, come in quelli in pace apparente”.

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